Quando affrontiamo il tema disabilità si accende sempre una lampadina nella testa di ognuno di noi, di tutti senza alcuna distinzione: barriere architettoniche.
Le difficoltà, gli ostacoli fisici che non permettono movimenti autonomi per raggiungere un luogo, vivere un attrazione, compiere atti di vita normale.
Sono scalini, porte strette, bagni impraticabili, parcheggi inesistenti, salite e discese che diventano una pioggia di macigni lungo il cammino di chi si muove su ruote.
Le barriere architettoniche nascono dalla non curanza di rendere il mondo alla portata di tutti, dalla scarsa progettualità per migliorare ciò che già esiste o far nascere cose utili da nulla.
Se in questo caso, con un po’ di buona volontà, tanta progettualità e competenza si riesce ad abbatterle e spianare la strada, c’è ancora tanto da fare quando incontriamo le barriere mentali.
Sono sempre di tipo architettonico metaforico, perché sono costruzioni perfette in quel mondo che è il pregiudizio. Non ci sono regole, non si sa come aggirarle, non ci resta che combatterle su più fronti: dall’interno, continuando a raccontare il mondo della disabilità semplicemente come una condizione differente di visuale di vita, dall’esterno portando a conoscenza dell’opinione pubblica casi che permettano di sviscerare più facilmente il problema.
La mia esperienza
Il mio cv è quello comune a tanti ragazzi della mia età che hanno fatto un percorso di studi nel mondo della comunicazione, che oltre alle parole strizza l’occhio all’immagine che devi coccolare o rappresentare, per essere considerato. Era estate, fine luglio, mi ero laureata da poche settimane nel giorno della presa della Bastiglia, il cellulare ha vibrato con un numero fisso di città che non conoscevo, era l’ufficio personale di una multinazionale nel campo degli idrocarburi che troneggia sullo skyline di Mantova.
Era per un colloquio di lavoro, come addetto stampa da iniziare a settembre. Felice prendo accordi per l’appuntamento, poi prima di riattaccare sfodero la consueta vitale domanda: “scusi, per venire al colloquio ci sono barriere architettoniche? Perché sono in carrozzina e non vorrei avere sorprese senza riuscire a raggiungervi”. Mutismo, silenzio post nucleare, nella sua assenza di emissione di suoni ho sentito chiaro il suo deglutire la notizia e le rotelle del suo cervello in cerca di un modo per uscirne. “Il colloquio è al 1° piano. Le faremo sapere se possiamo cambiare location”. Sono passati anni, contributi e cambi di livello da quel giorno, loro non li ho più sentiti e con loro non ho mai lavorato. Loro hanno chiuso, io da quel giorno ho capito che pure nel lavoro avrei giocato a rugby come il più bravo dei placcatori.
Le barriere mentali
Le barriere di tipo mentale hanno radici nella società, negli atteggiamenti di quelle persone che vedono nella disabilità qualcosa di diverso dalla solita routine. In questo articolo, ovviamente parliamo di disabilità, ma le barriere mentali colpiscono molti soggetti: per genere, colore, religione, zona geografica.
La soluzione per abbatterle o almeno smussarle sembra più complicato del lavoro che si deve fare in campo architettonico. Un buon compromesso potrebbe essere iniziare ad usare nel nostro vocabolario e a mettere in pratica il concetto di “scambio” con l’altro, passando per il tema della tolleranza, che qui non vuole essere un sinonimo di rassegnazione, ma di accettazione, di assorbire una particolarità dell’altro soggetto, rielaborarlo, farlo proprio e ritrasmetterlo elaborato in un’ottica di apertura.
Ecco che le barriere mentali sono una forma metaforica di disabilità, di mancanza di quel meccanismo di riuscire a pensare finalmente ad un “noi”.
Non ho la ricetta per capire come evitare entrambe le barriere, posso soltanto continuare a sperare che tutti insieme riusciremo ad allenarci per diminuire il disagio che ne deriva.